Leon Bridges, ritorno al presente

Ormai è chiaro: la pandemia, il lockdown e l'isolamento hanno portato molti artisti a pensare, comporre e registrare. Gold-Diggers Sound è un po' un figlio di quel periodo, di quei giorni e di quelle notti in cui Leon Bridges era chiuso all’interno di uno studio di registrazione a Los Angeles. Ha trascorso quasi due anni della sua vita in questo luogo che si trova ad East Hollywood, che è in parte hotel, in parte lounge bar, in parte residenza di artisti e in parte studio di registrazione. Un’esperienza veramente immersiva e introspettiva. Nel 2015, il suo primo album Coming Home (premiato con un Qobuzissime) aveva reso questo nativo di Atlanta una sorta di nuovo protagonista del movimento retro-soul. Non è il caso del suo ultimo album, che è in linea con i canoni del soul contemporaneo. Già nel 2018 con Good Thing, il suo secondo album dal sapore nu soul, e due anni dopo con Texas Sun, un EP molto psichedelico (registrato con Khruangbin), Leon Bridges ha dimostrato che sta cercando di scrollarsi di dosso questa aura da Sam Cooke/Otis Redding del terzo millennio...  

  Abbastanza rilassato nel suo insieme, Gold-Diggers Sound è un album che si lascia apprezzare sempre di più, ascolto dopo ascolto. Nonostante di tratti di un album di R&B profondo e sensuale, il suo autore affronta anche temi impegnati, come in Sweeter, dove evoca in modo diretto la durezza della vita degli afroamericani. In questo periodo macchiato dall'assassinio di George Floyd, il suo contributo è intelligente e discreto.  

  Ma il suo DNA rimane soprattutto quello di un lover puro, come su Why Don't You Touch Me... Leon Bridges ha invitato a partecipare al suo groove party anche due stelle del jazz moderno, il pianista Robert Glasper (su Born Again) e il sassofonista e polistrumentista Terrace Martin (su Born Again, Gold-Diggers (Junior's Fanfare), Don't Worry e Sweeter), per rendere il suo party soul ancora più imperdibile... © Marc Zisman/Qobuz  

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