Non un disco, per una volta, ma un libro: Paolo Fresu porta il suo riconoscibile tocco e la sua attitudine dalla musica alla scrittura e, “volando alto”, colpisce comunque nel segno, con l’aiuto di Vittorio Albani e delle illustrazioni di Riccardo Gola. Una recensione, ed anche una succosa intervista a Fresu ed Albani.

Intenso, poetico, preparatissimo, lucido, essenziale, sempre ispirato: il passo d’introduzione de “La storia del jazz in 50 ritratti” ha tutte le caratteristiche del suo estensore – le caratteristiche musicali. Paolo Fresu, infatti, per una volta si trova nelle vesti di scrittore e non di trombettista o compositore ed accompagnato dalla fida eminenza grigia di Vittorio Albani (una istituzione, nel jazz italiano degli ultimi decenni) così come dal tratto grafico semplice ma incisivo di Riccardo Gola, ha sfornato quella che potrebbe essere la classica strenna natalizia di qualità (se ne state cercando ancora una) e, in ogni caso, un volume molto godibile, da consigliare o regalare a chiunque si stia avvicinando al jazz e voglia capirne bene le coordinate. Senza inutili complicazioni, senza entrare nel particolare di informatissimi nozionismi estremi, ma mettendo sempre i tasselli al posto giusto.

Charles Mingus

Il titolo del libro è esplicativo, parla di per sé: ma più ancora dei cinquanta ritratti, il vero tesoro del libro sta appunto nella lunga introduzione scritta da Fresu. “Quando alla fine degli anni Settanta raccontavo ai miei paesani della mia nuova passione musicale, molti non ne comprendevano il senso. Legati ancora ai valzer ed alle annacquate clavi cubane per allietare i matrimoni, si chiedevano cosa c’entrasse tutto quel mio jazz con la ruralità di un centro che viveva di pastorizia”: simili lampi autobiografici si intersecano alla perfezione con una narrazione tanto a larghe maglie quanto comunque appropriata sulle evoluzioni del jazz, dalla nascita del genere alle ultime trasformazioni. È possibile sintetizzare la storia di un genere musicale così complesso in poche decine di pagine, come accade in questa introduzione? Sì: se chi scrive conosce, ama, respira la materia – ed ha comunque un approccio “aperto”, inclusivo, ancora candidamente (ma consapevolmente) entusiasta. Niente guerre di religione, niente posizioni sprezzanti su chi sia degno o indegno: si fa capire che sarebbe una perdita di tempo, di energie, di entusiasmo. Invece, una visione ampia, capace di raccontare il jazz per quello che è: una musica in divenire, vorace, curiosa, una musica affamata di presente, di immediatezza e di comunicatività, nonostante la complessità tecnica. Poi chiaro: ci si può sempre divertire nel “Io avrei messo…”, “Io avrei escluso…”, ma va detto che lette e rilette nel loro complesso le cinquanta scelte del volume sono tutte appropriate e, soprattutto, riescono a dare una cartografia molto completa. Le schede di per sé sono essenziali, sono probabilmente più “utili” che sorprendenti, ma la loro lettura scorre decisamente bene. Il “cuore”, come dicevamo, è di sicuro nell’introduzione; ma il valore e la qualità sono in ogni caso diffusi in tutto il volume. I già esperti non troveranno nulla di nuovo (ma troveranno un approccio da apprezzare, da rispettare, da cui imparare); i neofiti, troveranno davvero un tesoro.

Michel Petrucciani

Ma per approfondire ancora meglio l’analisi, abbiamo avuto la possibilità di scambiare quattro chiacchiere proprio con Paolo Fresu e Vittorio Albani, ragionando su scelte, criteri, pro e contro.

Iniziamo perimetrando il campo: chiedo direttamente alla fonte, cioè agli autori, cosa è “La storia del jazz in 50 ritratti” e cosa invece non è. PF: È un gioco divertente oltre che una sorta di sfida. Quando l’editore mi chiese di partecipare alla scrittura di questo libro gli dissi di no sapendo che sarebbe stato difficile per me scrivere una storia del jazz, seppure anomala. Successivamente ho incontrato l’illustratore Riccardo Gola (che è anche un contrabbassista di jazz) e mi sono convinto sulla bontà del progetto e sulla sfida da raccogliere. Ho coinvolto dunque Vittorio Albani per la parte delle schede e assieme abbiamo discusso sui musicisti da scegliere. Ho invece risolto i miei dubbi non scrivendo una storia del jazz ma raccontando come io, attraverso i miei ascolti, le mie letture e poi le frequentazioni con i musicisti, ho scoperto questa musica. È pertanto non solo un gioco e una sfida ma anche una storia personale attraverso la quale leggere la storia del jazz. VA: Credo che per tutti e due sia stato innanzitutto un gioco e, aiutati dal lockdown, abbiamo avuto abbastanza tempo per lavorarci sopra dopo un’analisi profonda frutto di alcune lunghe telefonate - ma il risultato non è tardato a venire, anche perché ci conosciamo profondamente l’un l’altro. Quello che abbiamo creato non ha mai ovviamente voluto essere nulla di accademico o didattico nel senso vero del termine ma, partendo bella visione “personale” della conquista della materia di Paolo ben esplicitata dal suo testo introduttivo, abbiamo subito convenuto (data la lunghezza che ci aveva dato l’editore) di evitare anche il classico “agile volumetto” che magari trovi in vendita negli Autogrill delle Autostrade. Per cui, anche scrivendolo, ci siamo accorti di creare una sorta di via di mezzo che forse esisterà anche ma che non era mai apparsa ai nostri occhi.

Ovviamente il gioco delle liste genera sempre discussioni anche frizzanti, su inclusioni ed esclusioni eccellenti. Quanto è stato difficile formare una lista di 50 artisti? Quali criteri avete seguito? Quali sono state le esclusioni più “dolorose” da questa lista di 50 nomi? PF: È stato ovviamente un gioco divertente, coscienti, con il “diktat” dettato dall’editore, di dover lasciare fuori tanti nomi fondamentali per la storia del jazz. È un po’ come la domanda sui tre dischi da portare sull’isola deserta, sapendo che quelle inesplorate e inabitate esistono oggi solo nelle storie di Daniel Defoe… VA: Ah beh, questa è ovviamente stata la parte più divertente del gioco. Scegliere 50 nomi di “una” storia del jazz e non dunque “della” storia del jazz è stata la prima possibilità che abbiamo subito recepito come plausibile. Impossibile limitare la storia del jazz in soli 50 nomi, come per certi versi impossibile - parlando solo delle 50 schede - limitare la storia di 50 importanti nomi in poco più di mille battute. L’editore ci ha dato l’input inderogabile della scelta alfabetica. Partendo proprio da Armstrong, primo nome della lista, dopo solo le prime righe della scheda mi sono subito messo a ridere chiedendomi “…e come faccio a parlare di Armstrong in pochi paragrafi?”. Per questo la scelta è stata quella di tentare di inquadrare biografia e stilema dell’artista, fornendo l’essenzialità della sua arte musicale. Dopo avere scritto una decina di schede non ero affatto contento e - lottando con l’ovvia consecutio temporum - mi sono accorto, anche grazie ad un'intelligente notazione di mia moglie, come sarebbe stato meglio e filante lavorare ad esempio usando sempre il tempo al presente, parlando cioè di un qualcosa che sta raccontando al momento. È stata una scelta felice perché ha dato immediata fluidità a ogni scheda.

Quali sono state le prime reazioni tra colleghi ed amici, attorno a questo volume? C’è qualche commento che vi ha sorpreso o incuriosito particolarmente? E c’è stata anche qualche reazione un po’ piccata? PF: Personalmente ho avuto delle buone reazioni all’opera. Forse perché non se la sentivano di parlarne male davanti allo scrittore… (ride, ndi). Ovviamente molti hanno chiesto perché un nome invece che un altro, e perché alcuni artisti noti non c’erano. La risposta è stata la lista in bianco alla fine del libro, dove ognuno può aggiungere i nomi che vuole e che pensa abbiano dato un contributo importante per lo sviluppo di una musica che ha compiuto da poco cento anni di vita. Perché fortunatamente gli artisti importanti che hanno contribuito alla crescita e allo sviluppo del jazz solo ben più di cinquanta, seppure molti siano in realtà presenti nelle pieghe del testo introduttivo e nelle schede preparate da Vittorio. VA: Nonostante abbia volutamente chiesto un’analisi critica a molte persone del settore, tutti hanno accolto favorevolmente il lavoro proprio perché hanno capito che si tratta innanzitutto e soltanto di un piccolo esercizio di stile attorno al “gioco” di cui scrivevo prima. Almeno per quello che mi riguarda, le reazioni più interessanti sono state quelle di tre insegnanti che mi hanno presto detto che avrebbero usato il testo per introdurre lezioni dedicate al jazz per studenti delle medie inferiori e superiori. Poi ovviamente ci sono anche state le domande intelligenti: “Come mai non c’è la scheda di Jelly Roll Morton?”. Ma anche: “E con quale coraggio hai inserito nella storia del jazz nomi come quelli di Eberhard Weber, Toots Thielemans, Han Bennink o Jan Garbarek?”. Oppure ancora “Un solo nome italiano??!!”. Le risposte, altrettanto ovviamente esistono, e sono tutte collegate al fatto che non avremmo potuto mettere più di 50 nomi. Per cui se si parla degli esordi (e allora per metterci un altro nome "italiano”), la scelta è stata quella di Nick La Rocca, sicuramente più evanescente di Morton ma titolare di un’incisione storica e importante. Weber e Garbarek sono stati l’escamotage per parlare del “nuovo suono” indicato da Rudy van Gelder e raccolto poi da Manfred Eicher, che ha donato al jazz un suono curato a livello tecnico e che ha rivoluzionato il modo di analizzare l’entourage jazzistico. Thielemans e Bennink sono il punto di contatto con l’Europa che incontra il mondo americano (il belga Thielemans) o che interpretano il linguaggio in altro modo (l’olandese Bennink) con ipotesi più radicali post free… e via di questo passo. Si trattava in breve di ampliare il territorio di ricerca e presentarlo in maniera più ampia.

Chiedo infine una cosa difficile; o magari, chissà, potrebbe essere il primo spunto per un nuovo volume... Ovvero: avete compilato la lista di 50 nomi che hanno fatto la storia del jazz, con una traiettoria quindi già consolidata. Quali potrebbero essere i 5 nomi che faranno invece la storia del jazz nei prossimi due, tre decenni? PF: È una ottima idea. In fondo è l’ampliamento di quelle pagine vuote nelle quali ognuno può aggiungere i propri nomi. Non so quali saranno i nomi del futuro, ma so per certo che questa musica continuerà invece a disegnarlo in quanto il jazz è profondamente legato ai cambiamenti del mondo. Questo ultimo cambia repentinamente nel bene e nel male. Sarebbe auspicabile la scrittura di un libro in grado di raccontare quanto il jazz abbia non solo contribuito ai cambiamenti del mondo, ma quanto questo idioma potrà essere capace di tracciare un nuovo cammino per un mondo migliore e per una bellezza da condividere. VA: È una domanda difficile, e per la risposta servirebbero pagine (ad esempio un nuovo libro con una analisi sociologica della fruizione e dell’interpretazione musicale collegata al “prossimo contemporaneo”) oppure poche parole. Ovvio che si possano anche poter trovare alcuni nomi, ma la storia insegna che sia meglio rispettare i tempi e lasciare il gioco in mano al tempo. •

Damir Ivic/Qobuz

Keith Jarrett


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