La band icona del Post-rock nostrano torna con un album raffinato e ambizioso

Dove eravamo rimasti? L’ultimo album vero e proprio dei Giardini Di Mirò risale al 2012 (Good Luck, uscito per Santeria) e la distanza temporale rispetto ai nostri giorni sembra molto più ampia dei sei anni che risultano facendo di conto. I “tempi diversi” a cui fanno riferimento nel titolo del loro nuovo lavoro si sentono - non fosse altro per il contesto musicale in cui si muovono, una “scena” indipendente che è profondamente cambiata nel corso degli ultimi anni e ha visto l’imporsi di nuove priorità, nuovi riferimenti, nuovi attori e nuove ambizioni. Certo nel frattempo i Giardini non sono rimasti fermi. Hanno pubblicato un altro album esclusivamente strumentale di sonorizzazione di un film muto del 1917, Rapsodia satanica del 2014, sulla scia del bellissimo Il fuoco del 2009. Corrado Nuccini ha portato avanti la sua collaborazione con Emidio Clementi dei Massimo Volume (Quattro quartetti) e Jukka Reverberi quella con Max Collini degli Offlaga Disco Pax (Spartiti). Il loro album d’esordio, The Rise and Fall of Academic Drifting del 2001 - una delle vette del post rock europeo e uno dei classici del rock indipendente italiano - è stato ristampato in doppio vinile dalla 42 Records due anni fa e questa uscita li ha riportati di nuovo in giro in tour. Ma un disco di inediti mancava da troppo tempo. E ora che è arrivato - si intitola Different Times ed esce anche questo per la 42 - è come se il tempo per loro si fosse fermato. Questo non significa che la band di Cavriago si ripeta e non evolva. Significa semplicemente che rimane fedele a se stessa, forte di una coerenza difesa tenacemente in oltre venti anni di carriera. I Giardini di Mirò non hanno bisogno di inseguire un malinteso suono dell’attualità perché il loro suono è diventato un marchio di fabbrica fortemente riconoscibile. Possiedono uno stile. Il post rock, la psichedelia, l’elettronica e la forma canzone, l’indie rock e certe sfumature wave - tutti ingredienti accumulati nel corso degli anni e che emergono anche qui con dosaggi diversi. Un suono che è ormai classico e non può essere diversamente: il post rock è una grammatica che hanno contribuito a codificare, le incursioni in altri territori (come l’indietronica e la voglia di scrivere canzoni in Dividing Opinions) sono state pienamente assimilate, la familiarità con quello che sanno, vogliono e possono fare ha raggiunto vette di confidenza altissime. I Giardini di Mirò guardano avanti ma tengono insieme tutto quello che sono stati - e non è un caso che per il nuovo album tornino a lavorare con Giacomo Fiorenza, il produttore del loro primo disco. L’epica serena della traccia di apertura, che dà il titolo all’album, è una piccola gemma strumentale che può tranquillamente rientrare tra le vette della loro produzione, la tenera ballata Don’t Lie, tra suoni di archi e l’ospitata di Adele Nigro di AnyOther, è un altro momento memorabile, esattamente come la successiva Hold on, realizzata con la collaborazione di lusso di Robin Proper-Sheppard (Sophia, The God Machine). Ci sono brani dalla forma canzone più canonica, come Under, che suona come il pezzo più orecchiabile e classicamente (deliziosamente) indie rock dell’album, e altri strumentali in pieno stile-Giardini (Landfall), oltre ad altre due collaborazioni importanti come quella con Glen Johnson dei Piano Magic in Failed to Chart e Daniel O’Sullivan nella finale Fieldnotes. “Tutto quello che si potrebbe chiedere a un disco dei Giardini di Mirò, ai Giardini di Mirò”, si legge nel comunicato di presentazione dell’album. Ed è vero, ed è tanto.  

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