Straight no Chaser è stata, dall’inizio della sua pubblicazione nel 1988, una guida straordinaria, senza compromessi, alle musiche che univano le radici con il futuro, esplorando tutti i possibili scenari sonori che, in maniera diversa, gravitano intorno alla “Madre Africa” con grande rigore filologico, ma anche con senso della libertà, con il gusto, decisamente britannico, dell’esplorazione, unito al piacere dell’ascolto

La ricerca e la festa, l’etnomusicologia e la pista da ballo, i club di Detroit e le favelas. Tutto ha sempre trovato un senso, una comune traiettoria in quelle pagine che sapevano di avventura, di esotismo. Straight No Chaser si è sempre assunto, pagina dopo pagina, quello che oggi viene definito ‘rischio culturale’, e che si traduceva nel sentirsi a bordo di una navicella che viaggiava tra i ‘Suoni interplanetari’, per usare una espressione cara al suo fondatore, Paul Bradshaw. Pagine, create in uno degli spazi di quello che, per un periodo, è stato l’epicentro della club culture internazionale, Hoxton Square, la piazza che si apre nella zona di Shoredicht, allora area ‘dimenticata’, lontana dalle mille luci delle notti londinesi.

Lì, una dopo l’altra, aprirono i loro uffici, alcune tra le realtà che avrebbero cambiato per sempre la percezione del ‘fare musica’ e aperto le nostre orecchie ai ritmi differenti. Straight No Chaser e la Acid Jazz Records, la Nuphonic Records, con le sue meraviglie disco e le raccolte dedicate al Loft di David Mancuso, e l’inarrivabile esperienza del Blue Note Club di Sav Renzi, con le serate Metalheadz di Goldie e quelle dell’India elettronica di Talvin Singh. Un laboratorio vibrante, che la mostra ospitata da Jazz:Re:Found ricostruisce e che raccontiamo qui con le parole di alcuni tra i protagonisti di quella stagione e di dj e artisti che ai contenuti di quel giornale si sono ispirati. Consapevoli che occuparsi di Straight No Chaser oggi significa guardare al futuro

- Pierfrancesco Pacoda


Paul Bradshaw

Paul Bradshaw
Paul Bradshaw

Paul Bradshaw è l’editore e direttore della rivista Straight No Chaser. È cresciuto in una casa dove il jazz era sempre trasmesso alla radio o ascoltato dal giradischi. Ha iniziato a collezionare dischi durante il boom dell’R&B britannico nei primi anni Sessanta. Attraverso gruppi come i Rolling Stones e gli Yardbirds ha scoperto il blues, da Sonny Terry e Brownie McGee a Howling Wolf e Muddy Waters.

Gli anni trascorsi al Liceo Artistico tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta hanno affinato i suoi gusti musicali. Mentre ascoltava i suoni ribelli di musicisti come Captain Beefheart e Velvet Underground, ha esplorato in profondità la scena musicale nera degli anni ‘70 innamorandosi delle musiche dorate e sentimentali di Curis Mayfield, Stevie Wonder, Marvin Gaye, Donny Hathaway, Parliament, James Brown, isaac Hayes, Aretha Franklin, Mille Jackson Bill Withers, Al Green e Ann Peebles.

Al suo arrivo a Londra nel 1973 aveva già una collezione di dischi di jazz radicale di artisti del calibro di John Coltrane, Pharaoh Sanders, Archie Shepp, Rahsaan Roland Kirk, Sonny Rollins, Miles Davis e Don Cherry. Era anche affascinato dalla musica giamaicana, il reggae, e dai messaggi spirituali e politicizzati dei Rastafari. La sua carriera di scrittore è iniziata come corrispondente reggae per il West Indian Digest e il quotidiano comunista Morning Star. Durante l’era punk e post-punk ha lavorato in tandem con il fotografo francese Jean Bernard Sohiez seguendo le scene reggae del Regno Unito e della Giamaica con una attenzione particolare per i Sound System, diventando collaboratore regolare della principale rivista musicale inglese, il settimanale NME.

Per due decenni Straight No Chaser ha dato voce alla comunità jazz globale che rifletteva le radici e i rami della diaspora africana di oggi. Ironicamente, è stato l’impatto di Internet a costringere Bradshaw, nel 2007, a cessare la pubblicazione della rivista. Per i successivi dieci anni ha continuato a lavorare su vari progetti, tra i quali una mostra che documentava l’evoluzione del reggae nel Regno Unito. Nel 2018, insieme al suo direttore artistico di lunga data Ian Swift (Swifty), ha rilanciato Chaser in un formato cartaceo leggermente diverso e ha prodotto 3 numeri che raccontavano la generazione nu jazz che attraversava il pianeta, dall’Inghilterra, Shabaka and The Ancestors, Comet Is Coming, Ezra Collective, Nubya Garcia, Cassie Kinoshi, Kokoroko, Tenderlonious, Nat Birchall, Matt Halsall, agli USA con Kamasi Washington, Heroes Are Gang Leaders, Irreversible Entanglements, James Brandon Lewis, Jaime Branch...

Tra le altre attività, ha curato un programma radiofonico mensile su Worldwide FM, fatto regolarmente il DJ a Dalston, con Freedom The Art Improvisation, una sessione mensile dal vivo di libera improvvisazione.

Ha intenzione di trascorrere i prossimi dieci anni dipingendo, leggendo, ascoltando musica e praticando varie arti marziali cinesi.


Intervista a Paul Bradshaw

Paul, quando e come è nata l’idea di realizzare Straight No Chaser?

Devo tornare con la mente all’estate del 1988…molto tempo fa. Allora io ero un giornalista freelance per il New Musical Express, un settimanale musicale con una tiratura di oltre 200.000 copie. Scrivevo soprattutto di black musica, reggae, jazzm musica african. I miei gusti musicali sono molto ampi. Mentre scrivo le risposte a queste domande ascolto artisti Ampiani e l’lp Coronation Dub di Jah Shaka. In quel periodo insieme con il redattore del NME Neil Spencer, frequentavo club come The Wag, Sol Y Sombra, Gaz’s Rockin Blues e i primi warehouse parties. Fu grazie a una chart pubblicata da NME che scoprì le serate Jazz Room all’Electric Ballroom. Il dj era Paul Murphy, il jazz, la selezione era davvero selvaggia e i ballerini incredibili. Fu la mia vera ispirazione e inizia a conoscere la scena, da dove arrivavano e chi erano i protagonisti principali. Cercai di introdurre la musica jazz dance alla rivista Wire, ma non erano interessati, Così, proprio per poter scrivere della musica che io consideravo la vera novità del momento, decidemmo di lanciare una nostra fanzine di “World Jazz Jive”, Straight No Chaser. Costava 1 sterlina ed era venduta fuori i club che frequentavamo e in alcuni negozi di dischi.

Cosa ha contraddistinto il movimento nato intorno alla rivista?

La rivista ha generato interessanti alleanze tra diverse scene musicali. Gilles Peterson proveniva dalla scena jazz/soul suburbana e funk… Sue Steward e Dave Hucker arrivavano dalla scena musicale globale latina/africana… Io ero stato fortemente coinvolto nel panorama dei sound system reggae di Londra così come nella scena jazz. Lo scopo della rivista era quello di essere internazionale. Avevamo collegamenti con il Giappone ed è stato sorprendente quanto velocemente la notizia della rivista si sia diffusa tra le anime musicali affini in tutto il mondo.

Cosa hanno in comune i diversi suoni raccontati dalla rivista?

La seconda generazione di SNC dal ‘98 in poi è stata etichettata Interplanetary Sounds: Ancient To Future. Fondamentalmente la musica in Chaser è unita dalle sue radici africane... attraverso la lotta contro gli orrori della schiavitù e oltre. Seguiamo rispettosamente le orme di Sun Ra e sentiamo di dover anche guardare oltre e abbracciare il futuro.

Quanto è stato importante il lavoro di SNC per la definizione della scena internazionale ‘acid jazz’?

Il termine “Acid jazz” appartiene a un DJ e contemporaneo di Gilles Peterson, Chris Bangs. È arrivato sulla scena dopo l’”acid house”, le feste di Ibiza e i rave illegali all’alba. Inizialmente era uno scherzo che è diventato un fenomeno reale. Talkin’ Loud & Sayin’ Something al Dingwalls di domenica pomeriggio era la patria dell’”acid jazz”. È stato interessante essere coinvolti nella recente mostra Acid Jazz & Illicit Grooves. L’impatto di quella scena è stato globale e noi, che ne siamo stati coinvolti, abbiamo tutti la nostra prospettiva su di essa e sulla musica che ne è venuta fuori, che si tratti di Galliano, Young Disciples, JTQ, Brand New Heavies o Jamiroquai. Per molti aspetti, “acid jazz” è riuscito a mantenere la musica da club basata sul jazz nel mix di fronte a un assalto house / techno.

Puoi ricordare per noi le tue prime esperienze musicali, il primo club in cui hai suonato, il rapporto con gli artisti, le etichette…

Da bambino, cresciuto nei primi anni ‘60, compravo costantemente singoli 7 pollici dei Rolling Stones, Pretty Things, Yardbirds e attraverso di loro ho scoperto il blues e etichette come la Chess Reords. Ascoltare un Sound System giamaicano all’inizio/metà degli anni ‘70 ha cambiato completamente la mia prospettiva sull’ascolto della musica. Anche se ho fatto il DJ nel corso degli anni, non mi considererei un DJ... Le mie selezioni sono eclettiche e forse un po’ indulgenti. Non mescolo ma so come mettere insieme la musica... (qui un esempio, https://worldwidefm.net/episode/brownswood-basement-gilles-peterson-60). Per quanto riguarda artisti ed etichette ce ne sono troppe… Ho avuto la fortuna come giornalista di incontrare e ragionare con maestri del jazz come McCoy Tyner, Pharoah Sanders, Yusef Lateef, Kahil El Zabar, Lester Bowie. E poi Bunny Wailer, Papa Wemba, Seu Jorge... l’elenco potrebbe continuare.

Qual è oggi la realtà dell’esperienza SNC?

SNC è diventata la bibbia per una comunità basata sul jazz in tutto il mondo e ha fornito una voce, uno sbocco, per persone che originariamente avrebbero potuto essere emarginate all’interno della scena dei club commerciali nelle rispettive città e paesi. Accanto ai DJ, la rivista ha costantemente sostenuto una nuova generazione di musicisti, come nei tre numeri finali prodotti prima di COVID. Il numero 98/99 trattava di Shabaka Hutchings, Cassie Kinoshi, Kokoroko, Steam Down incontra IG Culture... ecc.

Straight No Chaser è stato importante per la definizione di un nuovo linguaggio musicale?

Non credo... il linguaggio musicale appartiene ai creatori... che si tratti di jazz o drum ‘n’ bass o grime o afrobeat. Ogni generazione – specialmente qui a Londra dove la scena musicale nera è così fluida – sviluppa il proprio suono che attinge inevitabilmente alla musica di una generazione precedente e potenzialmente indietro nel tempo. L’essenza di Chaser era creare quei collegamenti, unire i punti, illuminare l’evoluzione della cultura e non rifuggire dalle radici oscure del passato coloniale e imperialista razzista di una nazione. La capacità delle persone di creare, perseguire una coscienza superiore o semplicemente riflettere nella propria vita in una forma che coinvolge ed eleva, nonostante le difficoltà e, molto spesso, la mancanza di sostegno finanziario è sorprendente. Che si tratti di una rivista, di un programma radiofonico o di un DJ, questa è l’energia a cui Chaser cerca di attingere.

L’Italia ha giocato un ruolo importante in quella scena. Quali sono le offerte musicali italiane più interessanti e originali durante i tempi di SNC e in questo momento nel 2023?

Una delle prime classifiche internazionali che abbiamo eseguito in Chaser è arrivata da The Fez a Bari, con Nicola Conte e il suo equipaggio. Nicola ha mantenuto la rotta ed è un importante componente della famiglia Straight No Chaser. In effetti, Roberta Cutolo, che è stata determinante nella realizzazione dell’iniziativa di Jazz:Re:Found,, fa parte dell’equipaggio originale di Bari / Fez. Ci sono un sacco di ottimi musicisti nella scena italiana, vecchi compositori come Piero Umiliani e Piero Piccioni, le folli colonne sonore, la Library Music, oltre a gruppi come Paulo Achenza trio. Quintetto X, Fez Combo e a etichette come Schema e Right Tempo. È fantastico come Nicola sia progredito fino a diventare un musicista, come dimostrano i suoi dischi per Blue Note Per lui suonare in club il Ronnie Scott deve essere un sogno che si avvera.

Quali geografie sonore stai attualmente esplorando? Potrebbe esserci una nuova SNC?

Straight No Chaser ha cessato la pubblicazione nel 2007. Fondamentalmente, come rivista indipendente vivevamo con la pubblicità e l’avvento di internet ha esaurito la nostra base pubblicitaria. La rivista non era più finanziariamente sostenibile. Tuttavia, un decennio dopo abbiamo rilanciato la rivista. A partire da # SNC98. Lo scopo era quello di mostrare sempre un design grafico innovativo e il nostro direttore Ian Swift aka Swifty ha sempre raggiunto l’obiettivo. Allo stesso modo, abbiamo avuto un gruppo di eccellenti fotografi e illustratori che hanno aggiunto un valore creativo agli sforzi tipografici di Swifty, Mitch e Matt Bailey. Come gruppo siamo rimasti fermamente “artistici”, culturali e politici. Per ora, non c’è #SNC100 Vol 2 in vista. Ma tutti i 100 numeri potrebbero presto essere disponibili online . Post-Covid ho avuto l’onore di fare l’editing al libro Lockdown FM (Broadcasting In a pandemic) di 600 pagine di Gilles Peterson, vale la pena acquistarlo! Insieme a Roberta Cutolo abbiamo appena completato un cofanetto di 5 vinili per BBE delle musiche di Airto e Flora Purim che uscirà a novembre (credo!) In questo momento sto lavorando a un libro che documenti 500 anni di British Black Music per la British Library.

Qual è stata l’esperienza professionale più entusiasmante durante il lavoro con SNC?

Come ho detto prima, incontrare i maestri è stato fantastico e avere l’opportunità di spingere una nuova generazione di musicisti, creativi che stanno uscendo dagli schemi è altrettanto brillante. Era sempre emozionante avere una nuova rivista tra le mani... l’inchiostro ancora fresco di stampa. Inoltre ho lavorato con molte persone fantastiche in tutto il mondo e apprezzo le conversazioni creative e l’amicizia che ne sono derivate. Abbiamo fatto diverse compilation. Amo gli album che io e Gilles abbiamo realizzato... “Escola Do Jazz”... quell’LP è uscito in Giappone. SNC ha presentato la band di Steve Williamson That Fuss Was Us in Giappone. Il loro concerto al Gold con i Kyoto Jazz Massive (il loro primo concerto a Tokyo fu un grande successo!!) L’altro concerto di cui sono particolarmente orgoglioso è stato lo Shape Of Things To Come al Forum, 1800-2000 persone, con artisti come The Roots, MC Solaar. DJ Krush, Steve Williamson, Jhelisa Anderson, Omar, Snowboy, Leila Arab e Bjork insieme in varie combinazioni di freestyle. Sono abbastanza sicuro che quel concerto sia stato una fonte d’ispirazione per le jam Red Hot e Cool / AIDS a New York con Giant Step. Convincere Gilles a suonare il “Theme De Yoyo” di Art Ensemble di Chicago nelle ore di punta a Dingwalls è stato un vero spasso. Bei tempi. •


Nicola Conte

Nicola Conte
Nicola Conte

Per comprendere l’originalità e la sensibilità musicale di Nicola Conte occorre fare riferimento all’attività del Fez, un movimento culturale fondato da Conte a Bari all’inizio degli anni ‘90 e divenuto un crogiolo di artisti, promotori culturali, appassionati di jazz e amici che condividevano interessi intellettuali e musicali.

Nel 2000 è uscito il suo album da solista Jet Sounds per Schema Records, che lo ha portato alla ribalta sulla scena internazionale La direzione musicale di Conte ha continuato a evolversi con Garota Moderna, l’album che ha prodotto per la cantante brasiliana Rosalia De Souza - e New Standards, l’EP in collaborazione con Gianluca Petrella. Questi due dischi hanno gettato le basi per l’album Other Directions, uscito nel 2004 per la leggendaria etichetta Blue Note. Nel 2009 è stato pubblicato The Modern Sound of Nicola Conte e nel 2011 Love & Revolution su Impulse! Records, disco realizzato con un ensemble cosmopolita di talenti

Nella sua vastissima produzione, va segnalato, tra il 2017 e il 2018, il lavoro di collaborazione con il trombonista Gianluca Petrella, pubblicato su due EP dalla Schema Records.

Nel 2020, e sedici anni dopo l’uscita di New Standards, Nicola Conte collabora nuovamente con Gianluca Petrella. People Need People è il loro nuovo album, pubblicato nel 2021 ancora per la Schema Records.

“Nuove forme di musica ‘club-oriented’, influenzate da vari generi, caratterizzano la recente storia del mondo globalizzato: la sovrapposizione delle esperienze individuali crea nuove collaborazioni, come è avvenuto in questo caso”.


Intervista a Nicola Conte

Nicola, come è nato il tuo rapporto con Straight No Chaser?

Cominciando dal principio, iniziai a seguire Paul Bradshaw sulla rivista The Wire, siamo nella seconda metà degli anni 80 e la nuova scena inglese iniziava a delinearsi con chiarezza e forza. Siamo ancora all’antefatto, dopo poco breve nascerà la Acid Jazz Records e le altre label che diffonderanno il sound in una dimensione globale. Sin qui Gilles Peterson pubblicava la serie Jazz Juice e assemblava lo storico Acid Jazz & Other Illicit Grooves per la Polydor. Paul Bradshaw era in quel frangente il riferimento intellettuale, la lettura alta di quel che accadeva. Nell’estate del 1990 durante una delle miei visite a Londra, conobbi Paul insieme a tutti gli altri, Straight No Chaser era nato ed in breve tempo era assurto a manifesto del movimento. Con Paul si stabilì subito un bel feeling e con la nascita del Fez a Bari (autunno del ‘90) l’Italia si aggiunse agli altri poli artistici dove oltre a Londra si sviluppava la nuova corrente (Tokyo/Kyoto, New York/San Francisco, Monaco etc.).

Ci racconti che scena si sedimentava intorno al quel giornale e quale era la sua caratteristica?

In quel momento storico il jazz attraversava un periodo di riflusso, l’ultima novità era stata probabilmente l’M BASE. L’intuizione di Gilles, Patrick, Norman, Eddie e gli altri fu di portare quella musica nei club, per un pubblico più giovane ed aperto alle contaminazioni, dando nuovamente valore a musiche ed artisti del recente passato e creandone di nuove in fusione con l’hip hop, il soul, la musica brasiliana e via dicendo. Immaginando contenitori mediatici e divulgativi che permettessero poi ai musicisti ed ai loro progetti di trovare presto una diffusione globale. L’impatto delle etichette indipendenti fu così forte che assai presto anche le major vollero avere un ruolo centrale nella produzione (Talking Loud...) Il fermento che si percepiva era così coinvolgente da conquistare un pubblico sempre più numeroso. Attenzione non parliamo solo di un fenomeno commerciale, ma di cultura, un plateau intellettuale che attingeva alla ricchezza della musica afro americana ed internazionale fuori dagli schemi di consumo. La musica era tutt’altro che pop, anche nelle sue espressioni più popolari. L’entusiasmo, l’eccitazione che si percepiva alle serate, ai concerti e’ ancora fisso nella memoria.

È difficile definire un ‘suono’ SNC, cosa univa, a tuo avviso, i suoni così diversi che trovavamo sulle pagine di quel giornale?

Il denominatore comune era il jazz, nel caleidoscopio delle sue contaminazioni dall’Afro Cuban Jazz del periodo bop anni 50, all’ Afrocentrismo anni 60, al Jazz Funk anni 70, al Soul sino alla fusion con i ritmi samba e naturalmente l’hip hop e l’house e l’elettronica degli anni 90. Il suono di Straight No Chaser abbracciava tutto questo, dove il passato prossimo fluiva nel presente e si profilava nel futuro

Quanto è stato importante SNC per la nascita della scena italiana dell’acid jazz?

Per qualche anno SNC è stata l’unica testata di livello che si potesse consultare e trovare dai distributori, quindi era assolutamente strategica per chi voleva tenersi aggiornato e approfondire i contenuti artistici. Direi che la sua è stata una centralità assoluta, non solo per l’Italia.

Ci racconti le tue prime esperienze musicali inglesi, i club dove suonavi, i rapporti con gli artisti, con le etichette?

Si dividono in due periodi distinti. Il primo, negli anni 90, è stato di conoscenza, di relazioni e scambi con altri artisti, molti dei quali furono ospiti del Fez. Dal 2000 iniziano i concerti e i dj set. Dal Jazz Cafè al Ronnie Scott’s, al Bar Rumba a Madama Jo Jo, ai Festival come il Southport Weekender. Con Gilles, Paul, Eddie Piller, Rob Gallagher, Bluey, Brand New Heavies, Patrick Forge, Joe Davis il rapporto di amicizia continua ancora oggi. Londra è stata per me una patria d’elezione ed un fondamentale punto di riferimento culturale ed artistico.

Cosa rimane oggi di quella esperienza?

È in progresso costantemente, mi piace pensare che si andrà sempre rinnovando. È unica la sensazione assoluta di vivere e di far parte di quello che è stato uno dei momenti di autentica contro cultura che la nostra società ha espresso negli ultimi 40 anni. Se si osserva quanto accade oggi, con onestà intellettuale non si può arrivare a una affermazione diversa.

Quanto quelle pagine sono state importanti per la definizione del tuo linguaggio musicale?

Come arricchimento della conoscenza tanto. Poi però c’è un percorso che è assolutamente personale, profondo, di sintesi e di immaginazione che trascende le fonti.

Ci indichi le tre realtà musicali italiane essenziali per immergersi nel mondo SNC?

Penso a tre label, la Right Tempo, la Schema e la Irma. Se devo pensare invece a degli artisti di oggi, certamente Gianluca Petrella Cosmic Renaissance, Nu Genea, Dj Khalab.

Verso quali geografie sonore si rivolge oggi la tua ricerca?

Verso i mondi del futuro, l’Africa e lo Spazio e verso l’armonia che un giorno sarà generata. •


Luca Trevisi

Luca Trevisi
Luca Trevisi

Luca LTJ Trevisi (LTJ X-perience) si forma come dj produttore alla fine degli anni ‘80. Residente prima al Kinki Club di Bologna e poi al Cap Creus di Imola, è uno dei primi dj italiani a programmare musica House e soprattutto a riproporre tutti quei particolari brani degli anni ‘70 di black music, jazz e latinbossa che poi nel tempo hanno dato il via al genere Acid Jazz e Rare Grooves. Gli ultimi CD realizzati su Irma “I Don’t Want This Groove To Ever End” (2012), “Ain’t Nothing But A Groove” (2013), " Don’t Let The System Get You Down” (2015),”Beggar Groove” (2017) e Deepening of a Groove evidenziano il lato più funk e groove di LTJ. Negli ultimi anni LTJ ha veramente girato il mondo portando le sue performance in festival come: Scottish Soul Weekender (Dumfries, Scozia), Mareh Festival (Boipeba Island, Brasile), Garden Festival (Tisno, Croazia), Jazz Refound Festival Cella Monte) e toccando città come Tel Aviv, Skopje (Macedonia), Belfast e Derry (Irlanda), Londra, New York, Berlino, Bucarest, Amsterdam, Parigi, Marsiglia, Barcellona, Vilnius (Lituania) Istanbul.


Intervista a Luca Trevisi

Luca, in che maniera SNC ha definito i confini di una scena?

I miei viaggi a Londra e in America per acquistare dischi, mi fecero scoprire SNC, che raccontava la scena musicale a cui appartenevo. In quel periodo non c’erano club che davano spazio a questo movimento in Italia. SNC ci ha insegnato che il club poteva gravitare completamente intorno alla musica di qualità, un sound senza tempo, principalmente black e dare spazio all’ importanza dei musicisti. Questo è avvenuto grazie alla nascita e al successo del genere Acid Jazz che ha cambiato la visone della discoteca, che era sino a quel momento quasi esclusivamente un contenitore di ritmi house music o commerciali. Locali come il Dingwalls, Fridge, Bar Rumba e altri, sulla scia di questo movimento, diedero vita a club storici italiani come il Fez a Bari, il Cap Creus a Imola, e ad altri importanti a Milano e Roma.

La differenza di orizzonti è sempre stato il segno identitario di quella scena. Se dovessi indicare quale fosse la ‘mappa’ di quella realtà sonora a cosa penseresti?

Inizialmente SNC era molo ‘londinese’, credo che un ruolo importante nella sua trasformazione e nell’ampliamento degli orizzonti sia stato l’interesse dei lettori del Giappone. I giapponesi in quel periodo erano ovunque a Londra a caccia di vinili come me, la loro terra aveva espresso dei gruppi che rientravano nelle corde del movimento, per esempio gli UFO. Contribuirono così ad ampliare l’onda del l’acid jazz che rimase comunque una scena underground, non commerciale nonostante il successo che iniziava a conoscere.

Come si riverbera oggi l’importanza di SNC su quello che succede nella musica contemporanea?

SNC ha insegnato a non tracciare confini tra la musica analogica e quella elettronica nell’universo jazz soul funk, evidenziando l’importanza delle varie contaminazioni elettroniche Proprio per questa peculiarità SNC è importante nel sound di oggi e Gilles Peterson ne è ancora il più grande portavoce worldwide! Paul Bradshaw ha creato un magazine originale e senza tempo, un modo unico nel raccontare e orientare la storia e l’evoluzione della musica nera, sempre rigoroso e underground!

A cosa si doveva l’autorevolezza di quel giornale che pure aveva una tiratura molto limitata?

Principalmente al fatto che parlasse e divulgasse solo musica di qualità, mostrando le radici e l’evoluzione di quel sound. Il jazz e le sue contaminazioni era il focus! Per non tralasciare la parte grafica di grande originalità! Grazie a quelle pagine sono entrato in un circuito incredibile, con Maurizio Spoglianti abbiamo portato al Cap Creus tantissimi artisti che avevamo scoperto leggendo il giornale.

In che maniera ha influito sulla tua formazione musicale?

Collezionavo e aspettavo con ansia l’uscita di SNC trovando sempre la giusta ispirazione per le mie produzioni musicali e dj set. Grazie a questa rivista, con il Cap Creus siamo riusciti a portare a Imola una grande selezione di artisti che erano presenti in quelle pagine. Per me è stato un vero punto di riferimento in quanto già nei primi 90 avevo un negozio di dischi “Black Power Records” insieme a Maurizio Gubellini dove vendevo rarità soul disco jazz originali, ed essendo uno dei primi negozi “online”, era importantissimo fare pubblicità proprio su SNC che ci dava la possibilità di arrivare in tutto il mondo.

Quali sono state le scoperte’ più affascinanti che hai fatto su quelle pagine?

In ogni uscita c’erano interviste “impossibili” a musicisti e gruppi mitologici, di cui non vedevo l’ora di conoscere segreti e aneddoti, sfogliavo le pagine ritrovandomi con artisti come Sun Ra, Gary Bartz, Donald Byrd e con tutti quei gruppi che rappresentavano il movimento di quegli anni come Brand New Heavies, Galliano, Ronny Jordan. Consumavo le mitiche charts di Gilles Peterson, Patrick Forge, Russ Dewbury, Nicola Conte, James Lavelle, Michael Reinboth, Joe Davies e tanti altri, ma mi interessavano molto anche le varie recensioni di dischi e le interviste ai nuovi artisti per la loro visione di “black music” contaminata con l’elettronica.

Quella rete ‘globale’ che SNC aveva creato è oggi possibile?

Dalle prime uscite fino a metà degli anni 2000, SNC ha creato veramente una rete globale, il più autorevole riferimento nel genere. Ha sicuramente indirizzato una ondata che, sulla scia dell’ acid jazz, ha trovato una giusta direzione in avvenimenti come Jazz:Re:Found!!!

L’Italia è sempre sulla mappa, come lo era allora?

Gli scenari ovviamente sono cambiati ma il modo e spazio di divulgare musica di qualità è sempre rimasto presente, e succede in tanti festival proprio quello che accadeva al Dingwalls, al Fridge, al Cap Creus, al Fez… concerti con grandi nomi del panorama black e dj di musica che spazia dal funk alla disco alla house ma con un denominatore sempre black. •


Raffaele Costantino

Raffaele Costantino
Raffaele Costantino

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Intervista a Raffaele Costantino

Raffaele, quanto Straight No Chaser è stato importante per la nascita e la definizione di una scena?

Credo sia stato molto importante, proprio per la definizione della scena, come dici tu. SNC ha letteralmente congiunto una serie di punti e di elementi che una volta riuniti in un unico racconto hanno dato una visione d’insieme. SNC è stato per noi abbonati una sorta di palcoscenico, dove ogni mese apparivano i migliori attori di una realtà musicale che esisteva già da tempo e non aveva ancora gli elementi utili per essere razionalizzata sul piano concettuale.

Una scena che, allora come adesso sfuggiva alle classificazioni. Era questo il suo aspetto più originale?

Certamente. È sempre stato difficile definire i generi di cui si è occupato SNC ma questo vale un po’ per tutti noi appartenenti a questo microcosmo musicale. In generale direi che il focus, abbastanza ampio, sia stato quello della musica nera. Del ceppo africano e della diaspora afroamericana, ma vista e raccontata da un punto di vista molto eurocentrica, anzi UK-centrica. Ha narrato il globale utilizzando la semantica locale, questo credo sia stato il fattore di successo. Come sai, gli inglesi hanno il loro modo di accettare le faccende altrui, rendendole proprie, declinandole a loro modo. Pensa all’hip hop che diventa jungle, alla garage che diventa UK garage, ma anche in termini più larghi al Brit Pop (che Dio ce ne liberi :))

SNC non era certo un magazine ad altissima tiratura, ma è riuscito a influenzare un suono ‘globale’. Come è stato possibile, secondo te?

Parliamo di piccole tirature, questo il suo fascino. Questo il segreto che lo ha reso irresistibile agli occhi di quelli come noi in tutto il mondo. Quelli che sentivano il bisogno di un contenitore di approfondimento interamente dedicato a quella sottile striscia di mercato musicale a cui si erano appassionati. Nel mondo del marketing si chiama “TEORIA DELLA LUNGA CODA” e ci dice che in un grafico vedremmo un picco di vendite verso l’alto rappresentato da cento artisti che vendono milioni di copie, ed un altro picco orizzontale ed infinito che rappresenta milioni di artisti che vendono 100 copie a testa. Il risultato numerico non cambia ma di sicuro quella lunga coda rappresenta un concetto molto più democratico del mercato musicale. Nessuno la fa da padrone e tutti contribuiscono più o meno in maniera uguale alla creazione della scena. Questo è quello che ha rappresentato SNC e grazie a questo ha influenzato tantissimo le club night e le produzioni di quegli anni.

Tu che rapporto hai avuto con la rivista e quanto ha influenzato, se ha influenzato, il tuo ‘fare musica’?

Mi ha sicuramente influenzato tantissimo. La usavo per tenermi informato sulle novità, visto che lavoravo nel reparto specializzato di un negozio di dischi. Mi dava una serie di informazioni personali (tramite le interviste) sugli artisti che poi avremmo invitato nelle nostre club night alla Palma Club, e da dj mi faceva scoprire ovviamente tantissima nuova musica che arrivava dalle chart degli altri dj. Molti dei miei viaggi a Londra per riempire la borsa dei dischi sono stati illuminati dal faro di SNC. Puoi immaginarti gonfiare a dismisura il mio ego quando la rivista, nella sua seconda vita, ha iniziato a parlare bene della mia musica!

Cosa rimane di quella scena e sarebbe possibile, oggi, e in che maniera, una esperienza editoriale simile?

Quella scena adesso è molto meno “nicchia”, oggi la moda è esplosa in tutto il mondo. Una moda partita ovviamente dalla Gran Bretagna, ma che ha invaso molti paesi fino a poco tempo fa davvero riluttanti rispetto a questo ambito musicale. Pensa a quanti Festival in Italia oggi stiano realizzando line up molto simili a quella di JRF. Pensa a quanto MusicalBox sia diventato un format non più solitario nel panorama musicale italiano (anche magari a livelli minori di audience ma altrettanto importanti). Pensa a quanti giovani giornalisti musicali si stanno appassionando ad ambiti che prima solo tu e pochi altri trattavate. Nonostante questo, credo che la stessa esperienza editoriale sarebbe impossibile da replicare. E questo è un punto centrale, credo, di tutto il lavoro che stiamo facendo su SNC. Dovremmo avere sempre chiaro in mente che questa è una celebrazione che vuole mettere un punto per andare avanti, non il maldestro tentativo di riesumare una esperienza finita. Mi farò aiutare dal maestro Barenboim, che a sua volta cita Spinoza (autore del capolavoro L’Etica del 1677), per chiarire il concetto: “L’uomo che possiede un’idea e ha osservato il modo in cui essa ha funzionato in passato è indotto a credere che tale idea possa applicarsi anche ad altre situazioni senza bisogno di ulteriori indagini”. Questo è un esempio di ciò che Spinoza chiama conoscenza empirica. Questo tipo di conoscenza in termini filosofici è monca e confusa.

Come ti immagini oggi, un lavoro simile a quello fatto da Paul Bradshaw, su quali media, con che partner, con che obiettivi?

Non me lo immagino ma credo che serva ragionare fuori dal sistema di idee che abbiamo già in testa. Quando un’idea viene assorbita da un sistema perde la sua essenza e l’energia con cui viene concepita. Serve pensare in maniera nuova, con gente nuova e nuovi linguaggi. Non possiamo credere di poter pianificare una avventura sperimentale conoscendo già la destinazione finale, l’idea stessa di ricerca implica la volontà ed il coraggio di scoprire per gradi. Di sperimentare appunto, quindi di provarci senza nessuna garanzia di un successo finale. Proprio come per JRF dai suoi inizi fino ad oggi.

Tu sei un esploratore di suoni, verso quali geografie si deve rivolgere oggi lo sguardo della ‘nuova musica’ occidentale?

Verso quello che una volta, in chiave totalmente eurocentrica e razzista, veniva definita “musica etnica”. Per anni abbiamo considerato quelle musiche qualcosa di puramente esotico, mentre oggi ci stiamo accorgendo sempre di più di quanta creatività esplosiva ed ancora inespressa arrivi dalle diverse parti del mondo. L’ Amapiano Sud Africano, il freebeat nigeriano, la scena marocchina, l’enorme successo della scena elettronica di Nairobi, Il jazz ed il rap indiano, insomma linguaggi musicali globali che vengono declinati in chiave locale per poi essere immessi nel flusso con una nuova energia. Non la world music remixata dai dj Occidentali, attenzione, ma i nuovi linguaggi tradotti dalla sensibilità culturale e linguistica delle diverse parti del mondo.

L’Italia, con l’acid jazz, ha avuto un ruolo importante nel panorama internazionale. Lo ha ancora oggi? Siamo sulla mappa? Ci indichi tre nomi italiani da seguire assolutamente?

Solito ruolo, credo. Ruotiamo attorno all’Inghilterra, attratti dalla sua forza di gravità, ed ogni tanto mandiamo lì qualcuno in avanscoperta a sondare il terreno. Sta succedendo in questi giorni con giovani e promettenti musicisti come Nicola Guida e Maria Chiara Argirò ed è successo da poco con Valentina Magaletti, ormai esplosa definitivamente. Ogni tanto riusciamo anche a piazzare qualche colpo di artisti che rimanendo in Italia riescono ad incuriosire il mercato uk (e di conseguenza quello Europeo) come ad esempio Clap Clap, C’mon Tigre, Khalab, Lorenzo Morresi, etc . Come nel passato è stato per Nicola Conte, Volcov ed altri. Straordinariamente poi succedono fenomeni come quello dei Nu Genea, che inserirei serenamente nella nostra “scena”, per riferimenti musicali, per la stretta connessione con il sud del mondo e per il rapporto personale che i due artisti napoletani hanno con molti di noi. Quindi si, siamo sulla mappa, ma pur sempre come territorio di confine. Esotici certo ma ancora lontani, non davvero influenti. Eppure sono convinto manchi pochissimo, basterà evitare sempre più di copiare gli inglesi in tutto quello che fanno e trovare un nostro suono, uno nostro approccio al genere. Proprio come sta facendo la maggior parte dei nomi sopra citati. •