Quando il pop italiano, guardando ai dancefloor più sofisticati ed iper-contemporanei (non quelli commerciali…), riesce a conquistare a sorpresa il mainstream: una storia con già più di un capitolo messo in archivio. Ma con un futuro (e un presente!) ancora tutto da scrivere

ANNI ’90, IL PRIMO SCOSSONE

In principio, erano gli anni ’90. Anni in cui la scena musicale subiva uno scossone inedito: al di là del rinnovo sonoro mutuato ancora una volta dall’Inghilterra (storia vecchia, per il nostro paese, fin dai tempi del beat), ciò che cambiava davvero le carte in tavola era il nascere di una nuova generazione di ascoltatori che, contestualmente, si era anche fatta una nuova cartografia dei luoghi e modi di fruizione della musica. Molto più alternativa, molto più disposta a cambiare le carte in tavola – e non solo ascoltando il grunge di Seattle. Nel decennio precedente la nicchia punk, che aveva sdoganato la possibilità di crearsi un ecosistema musicale che non fosse legato esclusivamente alle major ed ai grandi agglomerati della discografia, aveva aperto una via: c’è chi si è accontentato di restare nicchia – il punk, appunto – e c’è chi invece negli anni ’90 è andato ad esplorare, indagare, espandersi, raggiungere pubblici prima distanti, aiutato in questo anche dal fatto che il fenomeno dei centri sociali che si aprono agli eventi ed ai concerti come fossero delle venue a tutto tondo e non più solo all’elaborazione politica libera all’improvviso spazi e sviluppi. Ecco che quindi l’importazione di idee dall’Inghilterra – ma anche dall’America, naturalmente – è stata per la prima volta una scelta nettamente controculturale, alternativa, radicale anche se non si stava per forza nelle nicchie, e non invece un mero ingrediente in più voluto dai soliti padroni del vapore per rendere sempre pimpanti i fatturati e il controllo sul mercato.

La maggiore autenticità di tutta questa dinamica, e la sua volontà di non essere meramente sotterranea e carbonara, ha creato una ventata d’aria fresca davvero bellissima ed inedita nella musica italiana. La nascita del rap nella nostra lingua, non più come approssimativo scimmiottamento americano, o gruppi come Almamegretta e 99 Posse ma anche il reggae rivisto degli Africa Unite: ecco, queste ed altre esperienze simili avevano in comune il fatto di essere proposte artistiche la cui musica, in un modo o nell’altro, flirtava con le esperienze da dancefloor. Non “da discoteca”, attenzione, ma “da dancefloor”: occhio alla differenza, c’è tutto il tragitto che porta dal provincialismo da strapaese alla voglia di guardare agli avamposti culturali oltreconfine.

C’è chi lo faceva in modo indiretto, di attingere dal dancefloor e dalla club culture, prendendo la deriva dilatata del trip hop, di Bristol, dei Massive Attack, dei Portishead, una musica insomma più da post-ballo che da ballo ma che comunque nell’etica e nell’estetica del club aveva radici eccome; c’è poi chi aggiungeva sapori giamaicani, tra reggae, dub e ska, ma anche lì la matrice è dance, tra dancefloor e dancehall; c’era chi partiva dal funk e dal Northern Soul, come i Blindosbarra; e c’era perfino chi attingeva direttamente dalla techno (Madaski, in libera uscita solista dal reggae degli Africa Unite).

Il gruppo però più importante e paradigmatico di quest’era tanto sofisticata quanto cruciale nel rinnovare la geografia sonora italiana sono stati i milanesi Casino Royale (nota a margine: è curioso come Milano sia da sempre capitale della discografia e dalla relativa industria, ma abbia espresso pochissimi gruppi rilevanti negli ultimi decenni: perché tolta l’ultima e penultima ondata di rapper come Marracash e Club Dogo, a lungo si è dovuto citare solo i suddetti Casino e poi Afterhours e Ritmo Tribale o, andando davvero indietro nel tempo, Elio E Le Storie Tese. Roma in proporzione ha dato molto di più, ma anche Bologna o la stessa Napoli).

Che poi, è ingiusto usare il passato prossimo parlando dei Casino Royale: “sono stati” e in realtà “sono tutt’ora”, visto che nonostante i vari rimescolamenti di organico la band c’è ancora ed hanno ancora un approccio votato al futuro e all’innovazione (con l’ultimo disco Polaris, uscito in questo 2021, in cui gioca un ruolo molto importante il wunderkind tech-house e sorprendente figlio d’arte Francesco Leali). Un disco glaciale, futurista. Nell’economia del nostro discorso, però, il momento cruciale è metà anni ’90, quando fanno uscire quel piccolo capolavoro di Sempre più vicini.

Nati negli anni ’80 come gruppo ska (una deriva amatissima da un certo tipo di scena punk e post-punk, in quel decennio), col passaggio al decennio successivo hanno iniziato ad esplorare in modo notevolissimo: primo atto l’album Dainamaita, un’esplosione di idee e di stili, uno dei dischi più sottovalutati dell’epoca. Pieno di intuizioni e di “uscite in libertà”, scardinando completamente il monocolore britannico-giamaicano in levare che li contraddistingueva prima, respira molto lo zeitgeist di quegli anni (fertilissimo per il cosiddetto crossover, lì dove il rock incontrava l’hip hop, il funk e la sperimentazione reinventandosi in modo sorprendente, in quelle traiettorie insomma che viaggiano su una linea che parte dai Jane’s Addiction ed arriva ai Red Hot Chili Peppers passando per i Rage Against The Machine, ma anche percorrendo le stranezze caustiche dei Primus).

Poi, spiazzando i fan storici, perché un conto era “contaminarsi” nel rock e ben altro all’epoca era flirtare con l’elettronica, hanno virato decisi verso il trip hop più elegante, facendosi tra l’altro aiutare (ed ispirare) da un produttore – Ben Young – che aveva avuto un ruolo non secondario nel tratteggiare, come ingegnere del suono, l’identità bristoliana à la Portishead e Massive Attack. Poteva essere una mutazione tra tante, un tentativo un po’ così, un po’ azzardato; ma l’autentico stato di grazia della band nello scrivere canzoni ha fatto sì che quell’album non solo funzionasse ma anche uscisse prepotente dalla nicchia, affiorando nel mainstream (oggi il tragitto dalla scena indipendente al mainstream è normale, scontato quasi; all’epoca era quasi inimmaginabile) e diventando in qualche modo generazionale. L’album-simbolo, cioè, di chi credeva che anche arrivando dall’antagonismo e dal rifiuto dei modelli pre-determinati da major era possibile fare pop (…pop!) di qualità, canzoni che entrano nell’immaginario collettivo, senza però svendersi l’anima – visto che di anima in tracce come Cose difficili, Sempre più vicino, Ogni singolo giorno ce n’è parecchia, così tanta da vincere alla fine anche lo scetticismo dei fan più ortodossi. Tutto questo rinnovando profondamente il suono usato fino a quel momento dalla canzone italiana, e guardando ad una terra, per le nostre parti, quasi inesplorata: quella delle sonorità più raffinate dell’elettronica da club e, come detto, anche da post-club. Atmosfere malinconiche e nebbiose, striature ritmiche hip hop, rimandi all’astrattismo urbano dell’allora nascente drum’n’bass in certi pad di tastiera e in certi campionamenti.

L’impatto è stato notevolissimo. Forse negli anni più ancora fra gli addetti ai lavori che fra il pubblico stesso, a dirla tutta. Il pop italiano in quel momento ha iniziato a mutare. Si è fatto internazionale ma non più in modo derivativo e mimetico e, soprattutto, con qualche anno di ritardo: no, ha sentito improvvisamente l’esigenza di essere sintonizzato coi tempi. Di cercare l’immaginario (un po’…) più attuale e sofisticato. C’è stato qualche esperimento trip hop transitato per Sanremo rimasto non proprio alla storia (Madreblu, Dr. Livingstone), altri invece molto belli (Delta V nel loro “corpo a corpo innovatore” con la forma canzone più tradizionale, o il folk digitalizzato degli Üstmamò); e c’è stato anche, come coda lunga, un album diventato successo enorme come Asile’s World di Elisa, dove alla cabina di comando c’erano – uniti a quello che all’epoca era il Re Mida del pop italiano Corrado Rustici (il creatore del successo di Zucchero) – anche un giovane Roberto Vernetti (cruciale nella trasformazione dei Casino Royale) e perfino quell’Howie B fra i principali ispiratori della discussa svolta dance degli U2 a metà ’90. Il singolo principale estratto da quell’album, Luce (Tramonti a Nord Est), è ancora un grandissimo classico nel repertorio della cantautice. Ed è un brano che ha addirittura vinto il Festival di Sanremo, nel 2001. Ma questo ci porta già al secondo capitolo della storia.

NUOVO MILLENNIO: INCERTI A METÀ DEL GUADO

Secondo capitolo che, come sempre accade, trascolora comunque nel primo e viceversa. L’album chiave è Registrazioni moderne di Antonella Ruggiero, anno 1997: chiuso il capitolo Matia Bazar (che a loro volta aveva già flirtato più di ogni altro gruppo pop italiano con la musica dance, vedi la hit internazionale Ti sento, un unicum nel pop italiano cantautorale di allora), la Ruggiero incoraggiata dal marito e produttore Roberto Colombo decideva di reinterpretare alcuni pezzi forti del suo repertorio avvalendosi proprio della nuova scena scaturita dagli anni ’90 di cui parlavamo, quelle delle nuove forze, dei nuovi suoni, delle nuove attitudini: ecco allora il rap (con Esa e La Pina), ecco Madaski, ecco i Ritmo Tribale; ed ecco due gruppi allora agli esordi e semisconosciuti, Bluvertigo e Subsonica. Nota a margine: per far capire quanto fossero sconosciuti o poco affermati i Subsonica nel momento in cui Colombo decideva di coinvolgerli nel progetto, amici del sottoscritto organizzatori di concerti li avevano richiesti per una data. Data in cui avevano fatto alla fine sette paganti. Sette. Come cambiano le cose.

Bene: è proprio la rielaborazione di Per un’ora d’amore che lancia all’improvviso i Subsonica fuori dal magma indistinto (e all’improvviso molto affollato) della musica alternativa italiana in ebollizione, permettendo loro di fare il salto della specie: entrare piano piano negli ascolti pop, metterci un piccolo piede. Del resto, per riuscirci, all’epoca era comunque necessario introdursi vestendo gli abiti buoni della forma canzone e della bella melodia (come appunto fatto, non per calcolo ma per convinzione e per sfida artistica controcorrente, dai Casino Royale di Sempre più vicini prima citati). Il riscontro trasversale di Per un’ora d’amore (tra l’altro Registrazioni moderne è ad oggi il più grande successo della Ruggiero solista, come album) crea una tempesta perfetta, perché è coevo rispetto al lancio del primo album dei Subsonica. Un album il loro sì pieno di melodie raffinate ed azzeccate, va bene, ma comunque ben poco pop nelle scelte sonore dato che si muoveva deciso tra dub, breakbeat, jungle e molti altri stimoli in arrivo allora dalla club culture anglosassone più autentica, sofisticata ed intellettuale. Senza la spinta del brano con la Ruggiero forse i Subsonica sarebbero rimasti un gruppo di nicchia, con qualche mezzo successo, ma di nicchia; o forse lo stato di grazia artistica che li ha portati a fare, subito dopo, nel 1999, un secondo album come Microchip emozionale li avrebbe comunque destinati a un successo enorme, Ruggiero o non Ruggiero, pop e non pop. Successo però che all’epoca, ve lo assicuriamo, era inimmaginabile per chiunque – a partire dagli stessi Subsonica. E in effetti mancava ancora un tassello.

La svolta decisiva è ciò che di meno alternativo c’è nel mondo della musica italiana, almeno per come è stato conosciuto finora: il già citato Festival di Sanremo. I Subsonica ci arrivano come assoluti outsider, e tali resteranno anche a vedere l’esito finale (arrivano infatti undicesimi). Ma ciò che succede sul Palco dell’Ariston ha dell’incredibile. Arriva una canzone che parla di techno e house (musicalmente con la sua cassa in quattro, certo, ma anche nel testo: non tutti capiranno che apparentemente Tutti i miei sbagli parla di amore complicato, in realtà è invece una canzone sugli effetti del rapporto con le droghe sintetiche), respira insomma cultura dance da tutti pori, e non la dance commerciale da italo-disco e da pomeriggi a guardare Deejay Television e Sandy Marton ma la dance iper-contemporanea anglosassone – contaminata però da archi morriconiani e linee melodiche ariose. Un capolavoro, ancora oggi; nonché la dimostrazione che si può arrivare a Sanremo senza perdere l’anima, e senza sacrificare un briciolo di integrità artistica. Sì, come successo qualche anno prima ai Casino Royale: il pattern è lo stesso, il riscontro e il contesto ancora più nazional-popolare. Oggi forse è un fatto quasi assodato, che si possa ambire ad un successo diffuso pur partendo dal basso, dalla personalità e soprattutto dall’indipendenza; allora – nel 2001 – un’utopia apparentemente impossibile, a meno di non fare cazzeggio intelligente (…vedi Elio e La terra dei cachi o prima ancora Arbore e la chitarrina).

Il successo dei Subsonica aveva tra l’altro tolto definitivamente lo stigma contro il pop mutante a trazione alternativo-modernista: una dinamica di cui si giovano immediatamente a ruota anche i Bluvertigo, meno legati forse alla componente danceflooriana da club puro ed iper-contemporanea ma comunque debitori della lezione post punk e new wave nelle loro derivazioni più funk e danzabili. Ovvero il vintage che piace-alla-gente-che-piace, nel clubbing: il post punk è venerato tra dj techno e house più stimati e raffinati al mondo.

Un muro era caduto, insomma. E, come dicevamo, ne approfittava anche una Elisa, che subito si sintonizzava verso quella direzione (…per poi forse rientrare un po’ nei ranghi: ma qui si aprirebbe un’altra storia). Continuava però a restare il, come dire?, “sospetto di fondo” della grande industria discografica italiana verso le nicchie internazionali più sofisticate o comunque iper-contemporanee, viste come irriducibili e non collocabili nello scenario (pop)olare nazionale. A lungo infatti dalle nostre parti il rap non è decollato (tolte eccezioni isolate, Quelli che benpensano di Frankie Hi-Nrg ed Aspettando il sole di Neffa in primis, o i 99 Posse più melodici; per gli Articolo 31 poppizzati secondo i dettami di Franco Godi bisognerebbe fare un discorso a parte). E sull’elettronica da clubbing, altro grande fenomeno internazionale nato “dal basso”, il sospetto era ancora maggiore. Al massimo si viveva ancora della memoria della dance usa-e-getta prodotta negli anni ‘80 a misura di Deejay Television e di discoteche commerciali senza pretese.

Non c’era più ostracismo, però; ed era anzi possibile, prendendosi qualche rischio, arruolare artisti dal background alternativo ed indipendente come Meg (ex 99 Posse) e Bugo (re dell’indie più di nicchia e più stralunato) ed affidarli ad un produttore che arrivava al 100% dalla club culture, sia come piglio che come riferimenti sonori: Stefano Fontana, alias Stylophonic (…in ambito pop già testato e voluto qualche anno prima da quello che per il pop medesimo è sempre stato un precursore, Jovanotti, da quando è “uscito” dal suo primo personaggio più superficiale e macchiettistico). Il tocco di Fontana su Contatti di Bugo e Psychodelice di Meg creava un più che discreto successo in ambito pop, con lavori dove l’identità e il background sia del produttore che degli interpreti non erano per niente sacrificati in nome dell’omologazione ai canoni mainstream, anzi. Erano valorizzati. Di nuovo: attualizzarsi, guardare all’estero, ma non perdere l’anima. Il singolo Distante di Meg mutua più di un elemento dalla UK garage, evoluzione sofisticata britannica delle sonorità jungle e drum’n’bass fuse con la house; C’è crisi di Bugo ha più di un richiamo a Fatboy Slim. Giusto per fare un paio di esempi. Due cose del genere fino a pochi anni prima – che poi è quando la UK garage e Fatboy Slim nascevano ed esplodevano nel mondo – sarebbero state inimmaginabili nel pop italiano. Anche solo come presenza. Figuriamoci come discreto successo.

Non diventerà mai maggioritario, questo flirt del pop italiano con la dance da club culture più autentica, sofisticata ed internazionale (…da noi “dance”, per uno sgradito riverbero anni ’80, evoca sempre più un qualcosa di dozzinale e commerciale, come accennato già prima), ma comunque dai Subsonica in poi – con la primogenitura dei Casino Royale – viene messo sulla mappa. Non è poco. Manca però ancora un ulteriore salto di qualità. Ed arriva nel 2016, con un disco chiamato L’ultima festa, inciso da Marco Jacopo Bianchi, in arte Cosmo.

IL CICLONE-COSMO, E LA POSSIBILITÀ DI UN NUOVO CICLO

Cosmo arriva dal classico background indie, quello più alternativo ed “angolare”: post punk, cantautorato “sporco”, digressioni math-rock e la parte danzereccia che, se c’è, è comunque quella che nasce dalla No New York anni ’70 (in un arco compreso tra la follia e i Talking Heads) e non certo invece dalla Londra anni ’90 o dalla Berlino anni 2000. Chiaro: nel momento in cui decide di giocarsi qualche carta in solitaria uscendo dal gruppo con cui si è fatto conoscere, i Drink To Me, ci sta di prendersi qualche licenzia in più; ma se il suo primo lavoro in solitaria, Disordine (2013), è interessante ma abbastanza canonico in quel periodo per l’indie italiano corrente (quello che smette di guardare agli spigoli e guarda più a Battisti, se non proprio a Pezzali), è col secondo lavoro (L’ultima festa, 2016) che avviene una trasformazione. O meglio, inizia ad avvenire. House ed electro e, in generale, un approccio da clubland berlinese prendono improvvisamente possesso della sua musica, pur innestandosi su una struttura canonicamente indie. Connubio strano. Quasi mai prima praticato in Italia, se non per qualche isolato e sotterraneo esperimento, sull’onda lunga del successo nei club del genere electroclash e di etichette come la Gigolo di Dj Hell.

Peraltro, L’ultima festa si intitola così perché doveva essere per Bianchi l’ultima scampagnata da musicista dall’attitudine discretamente rock’n’roll, prima di tornare nei ranghi come professore (di istituto superiore) e padre di famiglia, visto che – come dire? – con la musica non ci si campa. Invece l’album, trainato dal successo imprevedibile e potentissimo del singolo omonimo, stravolge tutti i piani. L’ultima festa diventa infatti l’inizio di una nuova fase, altro che ritorno nei ranghi, e l’intuizione di abbandonarsi alle sirene del clubbing puro elaborandone le radici più autentiche (strutture quadrate e dilatate quindi, costruzione dei brani più da dancefloor che da ascolto radiofonico standard, un immaginario che deve molto alla psichedelia da rave) diventa una via sempre più perseguita, tanto che il successivo Cosmotronic esce addirittura con una propaggine solo strumentale e, va da sé, prettamente dance. Prettamente, raffinatamente dance. Potremmo sbagliarci, ma nessuno aveva fatto un percorso del genere nella scena alternativa – ma anche in quella mainstream – di casa nostra, riuscendo ad avere un riscontro pop in quanto a fama e diffusione. Nemmeno i Subsonica – almeno non in maniera così integrale come in Cosmotronic e, ancora di più, nel successivo La terza estate dell’amore. Se i Subsonica in qualche modo restano legati alla forma-canzone, Cosmo trasforma sempre di più i suoi album in dj set, come attitudine.

Tutto questo accade mentre l’indie – inteso come background indipendente nel senso più autentico del termine oppure, per le nuove generazioni, come etichetta onnicomprensiva svuotata del suo significato originario – conquista il pop, dando finalmente vita ad un vero (e necessario!) ricambio generazionale sia in chi suona che in chi ascolta. Sembrava infatti dovessimo morire non solo democristiani ma anche vascorossiani, ligabueschi, rafiani, biagioantonaccici, vendittosi, baglionari; ecco invece che improvvisamente nell’arco di un paio di stagioni prima i Cani (capostipiti) poi Calcutta, Thegiornalisti, Lo Stato Sociale, Gazzelle e molti altri (comprese certe contaminazioni spurie, con l’hip hop improvvisamente addomesticato e reso canzone, vedi Coez, Ultimo, Carl Brave e Franco 126) cambiano completamente le carte in tavola. Ma le cambiano così tanto che pure artisti che c’avevano provato da anni ma pareva non avessero futuro (Levante, Ex-Otago…) iniziano a mietere sold out nelle più grosse venue italiane, rientrano pianamente in gioco, proprio per il loro essere stati outsider in passato. Una rivoluzione.

Cosmo poteva approfittare benissimo di questo rinnovo delle gerarchie, d’altronde lui stesso aveva naturaliter quel piglio battistiano e la capacità di scrivere semplice ed essenziale di contemporaneità e quotidianità tipiche dell’indie “vincente” di questo decennio. Ma se il grosso della compagnia è andato in effetti a cercare sentieri musicali già battuti e collaudati, Cosmo si è rivolto al clubbing più intransigente in misura sempre maggiore: tra l’altro proprio in un momento in cui da anni – dopo i fasti dei primi anni 2000, con le hit di Tiga e Fischerspooner del già citato filone electroclash – il pop progressivamente aveva voltato le spalle al clubbing più duro, puro ed autentico, per abbracciare al massimo invece il mondo colorato e melodioso (e spesso astutamente calcolato) dell’EDM, da David Guetta in giù. La dance elettronica per i non-appassionati. Ben altra cosa che essere da sempre fan accaniti ed informati di quello che succede a Berlino, Chicago, Detroit, Ibiza, Londra. Cosmotronic ed ancora di più il recente (2021) La terza estate dell’amore sono dischi che parlano una grammatica quasi completamente “danceflooriana”: nei riferimenti, nelle strutture, nei suoni, nell’impianto ritmico. Anche lì dove c’è la voce, anche lì dove c’è il cantato in italiano. Mai successo prima, così.

Un caso isolato, quello di Cosmo? La scelta atipica di un artista atipico, che non fa insomma sistema? Forse no. Perché l’esempio da lui portato pare stia seriamente iniziando a farsi strada fra nuove leve. Curiosamente si fa strada in primis fra alcune promettenti musiciste al femminile: Cmqmartina è la più esplicita nel copiare il modello Cosmo (più quello de L’ultima festa e della parte più tradizionale di Cosmotronic), cosa che l’ha portata perfino ad X Factor, ma è ancora più interessante quanto stanno facendo due nomi come Ditonellapiaga e Whitemary (occhio all’album in arrivo per quest’ultima): il lavoro di (ri)costruzione pop in mano loro incorpora davvero elementi di iper-modernità, che vanno dall’hip hop più contemporaneo alla house dei Disclosure.

Si riprova insomma il brivido di avere una musica italiana cantata che finalmente si sceglie un abito che guardi alla contemporaneità più attuale e più di ricerca. Esattamente come negli anni ’90 all’improvviso si era guardato alla Londra della drum’n’bass, di una label come la Ninja Tune o alla Bristol più blu dei Portishead e dei Massive Attack – ed era stata una cesura non da poco. Stavolta però non è post-club: è proprio club, si va dritti al cuore del ballo, sofisticato magari ma ballo senza più scuse, senza più timidezze, senza più nemmeno la minima paura di apparire collusi col “disimpegno” da dance anni ’80 (…i Subsonica, ancora nei primi anni 2000, dovettero difendersi parecchio da questa accusa).

Da segnalare anche le sortite di uno stretto collaboratore di Cosmo, Mattia Barro. Un tempo caruccio ma sostanzialmente anonimo cantante del progetto indie L’Orso, e ora invece come SPLENDORE il più credibile esponente in Italia di un potenziale pop iper-attuale: quello che mutua stimoli non solo da Grimes ma anche dalla stralunata ed assurda PC music (una centrifuga accelerazionista dove entrano, deformati, pop, techno, musiche da videogiochi, alta ingegneria del suono, vibrazioni da rave deformate ed infantilizzate, fluidità di genere).

Questi ultimi anni potrebbero insomma essere solo l’inizio di una fase in cui il pop di casa nostra guarda come mai prima alle vibrazioni da dancefloor puro: non col nostalgismo di chi vuole tornare alla discoteca commerciale e a Sandy Marton, ma con la visione di chi spulcia i magazine dedicati al lifestyle internazionale più avanguardisti (…esattamente come negli anni ’90 si leggeva avidamente The Face – il giornale che tra l’altro importò in Inghilterra su larga scala la techno di Detroit e la vibrazione balearica house di Ibiza, con un’onda lunga che portò un brano puramente e ferocemente techno come Born Slippy a dominare le classifiche, anche in Italia).

Certo, se l’industria ci metterà sopra le mani provando – come fa o faceva troppo spesso – a standardizzare e a compartimentare tutto in ricette predefinite, la cosa inevitabilmente si spegnerà. Esattamente come si è spenta negli anni ’90, e non è mai veramente decollata nella prima parte degli anni 2000. Ma rispetto al passato, i rapporti forza tra major ed artisti sembrano cambiati: le prime lasciano molta più libertà artistica ai secondi. Sta ai secondi di approfittarne, ora. Ci vuole coraggio, ci vuole ascolto: perché Casino Royale e Subsonica prima e poi Cosmo hanno costruito il loro stile e la loro rivoluzione personale non seguendo delle mode, ma ascoltando con attenzione viscerale ciò che inizialmente era a loro alieno, immergendosi ed abbandonandosi in esso (con competenza). Qui sta la chiave. Vediamo chi avrà la capacità di andare in cerca della serratura giusta dove poterla usare, questa chiave. Senza perdere personalità. Senza perdere l’anima.